domenica 24 aprile 2011

domenico fauceglia





SON SETTE
SORELLE
































































































































































INTRODUZIONE


Scoprire nelle forme espressive popolari una sorta di linguaggio primordiale, carico di significati e valori che sono andati perduti nella massificata comunicazione della nostra contemporaneità, è uno dei massimi obiettivi di ogni studioso dei comportamenti umani.
La più grande risorsa di questo sapere antico è, per nostra fortuna, ancora custodita nella tradizione dei contadini, ovvero delle comunità più semplici e isolate. Queste genti si servono di un canale di comunicazione privilegiato, che è rimasto intatto per millenni: quello della musica, del canto e del ballo.

In questa introduzione affronterò lo studio della cultura contadina della Campania, nel sud Italia, appunto come proiezione della sua forma espressiva più genuina ed antica: la “tammurriata”. La tammurriata prende il nome dal suo strumento principe, la “tammorra” o “tammurro” (un tamburo sostenuto con una mano e suonato con l’altra), e la sua interpretazione prevede tre ruoli: il suonatore di tammorra (detto “tammorraro”), il cantante ed almeno una coppia di ballerini.

Nel paragrafo Cenni storici traccerò un quadro storico della tammurriata, sfiorando brevemente le epoche più significative per il suo sviluppo, dalle sue origini (presunte) fino ad oggi.
Ne Il mito e la fede affronterò l’analisi della matrice mitologica della tammurriata, e quindi della cultura contadina, ed evidenzierò gli elementi arcaici conservati nel rito anche dopo l’adozione della religione cristiana.
A questo punto tratterò Il culto delle sette Madonne campane, e mostrerò il percorso che ha portato i contadini a sostituire la venerazione per Artemide, con quella per Diana e quindi per la Madonna, identificando le tre divinità in un’unica dea Madre della fertilità e dell’abbondanza.
In Erotismo e spiritualità introdurrò il denso apparato di simboli di natura magico-rituale che appartengono alla quotidianità del mondo contadino, e poi estrapolerò questi simboli dal testo della Tammurriata per la Madonna dei Bagni.
Infine, nel paragrafo Tra sogno e realtà: la festa, cercherò di dare un’idea dell’importanza del “contesto” di una tammurriata, riportando una coinvolgente testimonianza sulla festa per la Madonna di Materdomini.


CENNI STORICI


La voce del popolo contadino che ha abitato il territorio campano, dalle pendici del Vesuvio ai monti che affacciano sulla Costiera Amalfitana, conserva ancora oggi una forte eco nella tammurriata. Tramandata nei tempi antichi col nome di “canzuna 'e copp' 'o tammurro” (ossia canto sul tamburo), la tammurriata non è semplicemente una forma d’espressione musicale popolare. Essa è il nucleo vitale del mondo contadino, e porta con sé precetti, insegnamenti, dogmi e tabù che hanno a che fare con le sfere della religione, della sessualità, delle credenze, della vita di ogni giorno.
Oltre che denso apparato di simboli e doppi sensi, la tammurriata è anche l’occasione nella quale si cerca di dare sfogo alle angosce, alle frustrazioni e alle paure quotidiane. Essa è dunque un modo efficace per esorcizzare le cause del disagio sociale e spirituale, attraverso una sorta di azione catartica che veicola una vera e propria maieutica del corpo sociale collettivo.

Quando è nata la tammurriata? Quali “ingredienti” hanno permesso la sua nascita?

Le origini della tammurriata vanno ricondotte almeno al V secolo a.C., periodo in cui gli antichi greci giunsero in Italia e crearono delle colonie in tutto il Meridione.
Il canto degli antichi greci, eseguito col tamburo, mise immediatamente le radici nell’entroterra campano, anch’esso strettamente legato al mondo agricolo e al culto delle divinità che proteggevano le messi e il raccolto.
La tammurriata va allora considerata il frutto dell’incontro di diverse culture contadine del Mediterraneo, e Napoli il luogo principale d’attrazione di queste molteplici correnti culturali.
L’estrema vitalità della cultura contadina a Napoli si registra ancora nel ’500 favorita dal continuo afflusso nella città di masse di contadini del sud. Quest’esodo era dovuto alle tragiche condizioni di vita imposte dal regime feudale, che provocarono l’abbandono delle terre e il riversarsi nella capitale di migliaia di contadini alla ricerca di una realtà meno disumana.
Il massiccio inurbamento fu anche favorito, peraltro, dalla politica del governo spagnolo, che conferiva esenzioni dalle tasse ai cittadini napoletani per creare una capitale forte e popolosa, tale da opporsi al potere dell’aristocrazia feudale e del clero (disegno che poi sfuggì pericolosamente allo stesso governo, per cui si fu costretti a proibire l’edificazione di nuove abitazioni nella città, dando luogo al formarsi di zone di emarginati nei quartieri sistemati alla periferia urbana, tuttora connotata da malessere sociale).
La città di Napoli, prima di essere decimata dalla “peste nera” del 1656, era la maggiore capitale europea, e quindi era un crogiolo di culture, da cui la tradizione contadina, sempre presente nell’area urbana, ha assorbito di continuo nuova linfa.
Nei tempi moderni, con l’industrializzazione della città partenopea, la cultura e le tradizioni contadine sono rimaste legate solo ai luoghi di culto nella capitale, oppure alle province campane la cui economia era diffusamente basata sull’agricoltura.

Così, di generazione in generazione, il sapere contadino si tramanda ancora secondo i canoni della trasmissione orale.
E ancora oggi la tammurriata, questa forma arcaica di canto sul tamburo, si trasmette di padre in figlio, ed è legata ai rituali collettivi come i raccolti nei campi, il passaggio delle stagioni, la vendemmia, le feste religiose.
Solo questi momenti di vita contadina possono determinare la funzione, l’occasione e la dimensione del rituale, necessarie per la materializzazione di questa forma espressiva.
I canti dei contadini, il loro lavoro, le loro paure, i loro amori appartengono a una storia mai scritta, mai ricordata, che trova un filo di vita nei racconti e nei ricordi dei vecchi.

Al giorno d’oggi la cultura contadina è ancora viva in Campania, anche se la spaventosa avanzata del cemento rischia di portare all’estinzione la figura del contadino, e nonostante il quasi completo disinteresse, se non addirittura l’ignoranza, da parte delle nuove generazioni nei confronti dell’eredità culturale del passato.


IL MITO E LA FEDE


Ho accennato alla matrice ellenica della tammurriata e al fatto che il canto sul tamburo dei greci, che vivevano nelle colonie dell’Italia meridionale attorno al V secolo a.C., è stato immediatamente assorbito dalle popolazioni contadine campane.
La tammurriata è diventata tuttavia una fortissima espressione di fede cristiana, meglio conosciuta in Campania come “devozione”, rivolta quasi esclusivamente alla Vergine, ma spesso anche ad alcuni santi, come ad esempio San Michele o Sant’Antonio Abate. Si potrebbe pensare che i contadini campani, una volta abbracciato il cristianesimo, adattarono le antiche usanze, con cui adoravano le divinità protettrici dei raccolti, ai simboli e alle icone della nuova religione.
L’aspetto veramente straordinario di questo “riadattamento paradigmatico” è che la sorgente mitologica del sapere contadino non si è mai prosciugata, ma, come un fiume carsico, ora emerge in superficie in modo evidente, ora scompare alla vista, segnalando la sua presenza solo con un sottile gorgoglìo sotterraneo.

Uno degli elementi-chiave per la comprensione della cultura contadina campana sta nel rapporto dialettico tra gli opposti, che dà origine ad una cultura “dualistica”.
In questa cultura “a spirale”, continua e dinamica, l’opposto vive spesso nella stessa entità, nello stesso “segno”; in essa sono stati bloccati, in un “equilibrio instabile”, gli elementi pagani e cristiani che l’hanno generata.

Tutto ciò si riflette nella tammurriata, che si esegue prevalentemente in occasione dei pellegrinaggi ai numerosi Santuari mariani presenti nell’entroterra campano. Questi Santuari sono dedicati quasi tutti a Madonne “sedute” (ad esempio la Madonna di Montevergine ad Avellino, o la Madonna dell’Arco a Giugliano in Campania).
Ad un’attenta analisi, le attuali Madonne campane hanno, proprio nel fatto che sono “sedute”, una radice pagana. Infatti, la loro rappresentazione “seduta” è, in qualche maniera, la trasposizione cristiana del culto pagano di Demetra, la madre terra, figlia di
Crono e di Rea, quindi sorella di Zeus; dea delle messi, in genere legata all’agricoltura, e che veniva appunto raffigurata seduta.
Attributi di Demetra erano la fiaccola, il covone di grano, il maiale, elementi esistenti anche nell’attuale rappresentazione di alcune Madonne.
Ebbene, al culto di Demetra si associava un ballo con l’uso di un tamburo molto simile all’attuale tammorra (il tamburo usato nella tammurriata), che veniva percosso con la mano nuda.
Le prime raffigurazioni in cui compare questo tamburo le abbiamo in ritrovamenti archeologici, bassorilievi, affreschi e pitture databili al V secolo a.C..

In epoca latina si adorava Cerere, dea anch’essa della vegetazione e delle messi, e in suo onore si celebravano le “Cerealia”, feste che si svolgevano nel mese d’aprile, care ai contadini.
Le danze e i canti orgiastici, che accompagnavano queste feste propiziatorie, rappresentano l’anima delle attuali manifestazioni di fede nelle feste popolari in onore della Vergine.


IL CULTO DELLE SETTE MADONNE



- Cumm' è che ddicen' 'o fatto r' 'e… Maronne che ssongo sei' sore?
- 'A Maronn' 'e Muntevergene… 'a Maronn' 'e Pumpei'… 'a Maronn' 'e Mugnano… 'e santa Filumena… 'a Maronn' 'o Càrmene… 'a Maronn' 'e Vagne… a che stammo?… 'A cchiù brutta se ne jette a Muntevergene… er' 'a Maronn' 'e Muntevergene.
- Pecché era nera…
- Eh… 'a Maronn' 'o chiano…
- E pecché signo' se ne jette a Muntevergene?
- E se ne jette pecché chell' er' 'a cchiù brutta, rice: - I' so' 'a cchiù brutt' 'e tutt' 'e ssòre meie, me n'aggi' 'a j' tanto luntano ca m'hanno 'a veni' a truva' tutt' 'o prùbbeco.
- Se jette a mettere ncopp'a nu pizz' 'e montagna… 'o gghianco.
- Era… 'a settima.
- Eh… 'a settima, 'a l’urdema sòra.
- 'A l'urdema sòra… ricette: - I' so' cchiù brutta 'e tutt' 'e ssòre meie, me n'aggi' 'a j' tanto luntano ca m'hann' 'a veni' a truva'.
- Pecché era nera…
- Invece chell'er' 'a cchiù bella!
- Ma pecché è nera?
- Era nera…
- Allora so' sett' 'e ssòre!
- Eh… sette sòre.
- So' sei' belle e una brutta.
- Sei' belle e una… un' 'a chiammano brutta, però chella brutta è cchiù bella!
- Chella cchiù brutta è cchiù bella!
- È 'a Maronn' 'e Muntevergene.
- È 'a Maronn' 'e Muntevergene!





- Com’è che dicono il racconto delle… Madonne che sono sei sorelle?
- La Madonna di Montevergine… la Madonna di Pompei… la Madonna di Mugnano… di santa Filomena… la Madonna del Carmine… la Madonna dei Bagni… a che stiamo? La più brutta se ne andò a Montevergine… era la Madonna di Montevergine.
- Perché era nera…
- Sì… la Madonna del piano…
- E perché se ne andò a Montevergine?
- E se ne andò perché era la più brutta… dice: - Io sono la più brutta di tutte le mie sorelle, devo andarmene tanto lontano che tutta la gente dovrà camminare per venirmi a trovare.
- Si andò a stabilire su una vetta di montagna…
- Su una vetta di montagna… al bianco.
- Era… la settima.
- Sì… la settima… l’ultima sorella.
- L’ultima sorella… disse: - Io sono la più brutta di tutte le mie sorelle, devo andarmene tanto lontano che dovranno venire a trovarmi.
- Perché era nera…
- Invece quella era la più bella!
- Quella era la più bella!
- Ma perché è nera?
- Era nera…
- Allora sono sette sorelle!
- Sì… sette sorelle.
- Sono sei belle e una brutta.
- Sei belle e una… una che la dicono brutta, però quella brutta è più bella!
- È la Madonna di Montevergine.
- È la Madonna di Montevergine!


Questo è un racconto in forma di dialogo di Maria Boccia D’Aquino, contadina di Boscoreale – Napoli, del mito delle sette Madonne della Campania.


In Campania c’è il mito delle sette Madonne, sette sorelle, sei belle e una brutta e nera. La brutta se ne andò sulla montagna di Montevergine, località vicino Avellino, e così ebbe inizio l’adorazione a quest’ultima sorella brutta, che invece è la più bella.

Una vasta iconografia permette di ricondurre le sette sorelle alle sette Sibille, le sacerdotesse dedite al culto d’Apollo, che avevano la facoltà di profetare e di interpretare gli oracoli del dio, e che poi vennero a far parte del culto cristiano.

L’interpretazione più plausibile del culto delle sette Madonne lo riconduce alla rappresentazione dei mesi dell’anno e delle stagioni, propria della cultura contadina.
Il numero sette (che è numero magico) non va pensato solamente come sette: dal momento che sei sono bianche e una nera, sei rappresentano la primavera e l’estate, la settima – nera, brutta – rappresenta l’autunno e l’inverno, essa è sempre collegata alla montagna, e in un solo segno racchiude questo lungo periodo, in cui la terra accoglie la seminagione e promette il ritorno delle sei sorelle belle.
Questo modellamento si ispira ad elementi di cultura pre-cristiana, poi accolti anche nella nuova religione.
Così la figura della Madonna si veste di un senso contadino molto più antico, e questo spiega anche perché il cristianesimo è poi entrato a far parte della cultura contadina: perché ha preso su di sé i segnali più antichi, li ha accolti e mantenuti al suo interno.

Nella cultura campana la “settima” è la Madonna di Montevergine, ed è l’unica ricorrente, le altre sei possono essere qualsiasi. Infatti i nomi variano da paese a paese, ma mantengono una costante nel riferimento alla nera, che ritorna sempre, appunto la Madonna di Montevergine.

Il culto del nero, della Madonna nera, affonda le radici in un modello pre-cristiano. Un precedente potrebbe essere la Diana degli efesini, che era una Diana nera.
Il parallelismo tra la Diana di Efeso e la Madonna nera è lampante, e conferma ancora una volta la continuità di certi elementi di culto fondamentali nel passaggio da una religione a un’altra; gli elementi del culto pagano degli avi, ancora oggi custoditi dai contadini campani devoti alla Madonna.
Dalla storia e dall’archeologia sappiamo che l’antica città greca di Efeso, in Asia Minore, era particolarmente celebrata nell’antichità per il magnifico tempio dedicato ad Artemide (Diana). La dea greca Artemide inizialmente era adorata come dea madre, una facoltà rappresentata nelle iconografie dalle sue numerose mammelle.
Presso i romani Artemide era identificata in Diana, una dea dei boschi ma anche dea della fertilità.
Negli Atti degli Apostoli si legge che San Paolo apostolo fu cacciato da Efeso a furor di popolo, poiché gli artigiani e gli artisti della città non volevano perdere gli affari legati al commercio di manufatti, che celebravano Artemide e il suo tempio, per i fedeli e i pellegrini in visita da tutte le parti del mondo.
La chiesa fondata da Paolo a Efeso, cadde poi sotto l’influenza di un uomo chiamato Giovanni, che potrebbe essere riconosciuto come il quarto evangelista. Se così fosse, Giovanni, quando andò ad Efeso, avrebbe portato con sé Maria, la madre di Gesù.
Infatti il Vangelo secondo Giovanni racconta che il Cristo sul punto di morire sulla croce affidò la madre al suo discepolo preferito, appunto Giovanni.
Di conseguenza, ad Efeso, accanto alla chiesa dell’apostolo, fu eretta la prima basilica in onore della dea madre dei cristiani.
La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo.
E allora la città ebbe di nuovo la sua magnifica dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini.

L’assunzione della Madonna a dea madre del popolo contadino convertito al cristianesimo è meravigliosamente esemplificata dall’immagine di Maria Santissima delle Grazie, risalente al primo ’400, che tutt’oggi si venera nella Chiesa di San Pietro Martire, appartenente ai Frati Domenicani a Napoli.
L’immagine mostra Maria nell’atto di aspergere latte dalle proprie mammelle (simbolo di maternità, protezione, amore), e appare evidente il collegamento con l’aspetto nutrice della Grande Madre dalle molte mammelle, l’Artemide greca, che prometteva abbondanza e fertilità.




EROTISMO E SPIRITUALITÀ


Ho descritto sopra l’elemento-chiave del rapporto dialettico tra gli opposti, che genera la struttura dualistica della cultura campana.

Ora introduco un nuovo, importantissimo, concetto-chiave della cultura contadina campana che è quello del “doppio”.
È proprio la lettura “polisemica” dei testi, delle danze, delle musiche, dei colori, dei gesti, che ci pone di fronte l’esistenza di doppi: il bello e il brutto, il bianco e il nero, il bene e il male, lo spirito e la carne, la femmina e il maschio, la Madonna e Diana, la Madonna e il sesso.
Gli elementi che formano i doppi non sono necessariamente degli opposti, ma hanno la caratteristica di vivere contemporaneamente. Essi fanno parte di una sola realtà, né si escludono mai per ragioni moralistiche, né uno dei due elementi viene rimosso o ignorato.
E così la “settima” sorella è nello stesso tempo la più brutta e la più bella, la Cenerentola e la principessa!

Se andiamo ancora più a fondo nell’interpretazione dei simboli della cultura contadina ci imbattiamo in “catene di doppi”, che vengono a formarsi con l’incrocio e lo scambio degli elementi di ciascuna coppia di concetti. Così, ad esempio, la “madre”, il “sesso” e la “morte” sono concetti che entrano uno nell’altro e si scambiano e sono la stessa cosa.

Il concetto di doppio è, secondo me, fondamentale per comprendere a fondo lo spirito con cui si vive la tammurriata, nel suo carattere sacrale e orgiastico allo stesso tempo. È un concetto che ci fa comprendere in pieno la necessità di “sincretismo” del popolo contadino con la sua terra e con chi la protegge, e la benedice.
Quindi, e qui bisogna prestare molta attenzione, quando in un canto dedicato alla Madonna troviamo espressioni erotiche, con espliciti o impliciti riferimenti al rapporto sessuale o agli organi sessuali, non dobbiamo pensare in alcun modo a un gusto per l’ambiguità. Infatti il mondo contadino vive senza separazioni i vari momenti della vita, e, nello stesso modo, esprime nei canti e nelle danze della tammurriata questo sincretismo tra fervore religioso e ardore sessuale, due atteggiamenti emotivi posti allo stesso livello nella gerarchia dei comportamenti sociali.
Perciò non ci sono ambiguità, quelle che impropriamente vengono dette “doppi sensi”, né c’è alcuna malizia dal vago sapore blasfemo.
Siamo di fronte a un’espressione popolare limpida e pura, dove prevale su tutti il sentimento dell’amore. Non un amore sezionato in base alle diverse vicissitudini della vita, ma un amore totalizzante, paritetico e globale, che è la vera forza per affrontare la durissima vita contadina.

L’intero apparato simbolico, che proprio in presenza di un’interpretazione polisemica assume spesso e volentieri connotati magico-ritualistici, è condensato in maniera estremamente raffinata nel “testo”, nel senso più ampio del termine, della tammurriata, in apparenza un’espressione così genuina e spontanea.

TAMMURRIATA PER LA MADONNA DEI BAGNI


Il modo più efficace per chiarire il concetto del doppio e il sistema simbolico ad esso correlato è leggere direttamente il testo di una tammurriata (Riporto degli estratti del lungo testo di una tammurriata cantata da due “cantatori”, così sono chiamati i cantanti delle tammurriate, durante la festa per la Madonna dei Bagni, il cui Santuario si trova a Scafati, nell’Agro Nocerino-Sarnese. Questa festa si tiene il giorno dell’Ascensione e la domenica successiva. In tali giorni confluiscono fedeli da tutta la zona pompeiana e salernitana. Costoro, dopo avere attinto l’acqua da una fontana ritenuta miracolosa, esternano la loro devozione con canti e balli nei pressi del Santuario):

- Caruta na stella ra cielo
e 'mmiez' 'o mare s'è spampanata
e 'a rinto c'è asciuta na piccerella
cu 'e ricce 'nfronte cu 'e 'nnell' 'e mmane

La prima strofa di questa tammurriata è, di solito, eseguita nello stile detto a “fronna”, ovvero a “fronn' 'e limone” (fronda di limone), che è una particolare forma di canto campano a distesa e senza accompagnamento strumentale. Le “fronne” costituiscono uno dei più antichi modelli di lamentazione funebre in Campania, come conferma anche la gestualità dei cantatori di fronne che portano sempre la mano alla guancia nel cantare.


- Oi' 'mmiez' 'o mar'è nnata na scarola
li turche se nce 'a jocano a primera
chi pe' la cimma e llèna
nn' 'o tira' ca se nne vène
tien' 'a spina sott' 'o père
e nce 'a tiene e bbì e bbà
zompa 'o muro e bbiene ccà
nu vaso 'mmocca t'aggi' 'a ra'

Gli ottonari che ho riportato in corsivo sono assemblati estemporaneamente dai cantatori a mo’ di filastrocca, e non fanno parte del testo originario della tammurriata. Questi versi ottonari, detti dai cantatori “barzellette”, sono generalmente a carattere erotico, e il loro canto, effettuato quasi come una declamazione ritmica, assume i connotati della formula magica.

- … pe' la cimma e chi pe' lu streppone
neh chi pe' la cimma e chi pe' lu streppone
viato chi s' 'a vence sta figliola
chesta figliola è figlia re nutaro


- … sta figliola è figlia re nutaro
nce 'a port' 'a vunnelluccia tutta sciure
e 'mpietto nce 'a porta e bbà
sera e Napole mò ccà

- e 'mpietto nce porta na stella Riana
stella Riana quanno cumpariste
l’aria 'ntruvulata comm' 'o schiaraste

- uh l’aria 'ntruvulata 'o schiaraste
a chillu pezzillo che te nce mettiste
na fonta r'acqua santa nce criaste

- ue' na fonta r'acqua santa nce criaste
chi s’hadda vève ll'acqua re sta fonte
hadda tène 'e zecchenielle
e hadda tène 'e zecchenielle

- e hadda tène 'e zecchenielle pronte cuntante
'e zecchenielle mie so' ssempe pronte
chest'acqua m'aggi' 'a vève e Mmilla
nu canario e nu cardillo
uno allucca e n'ato strilla
n'at' 'o fa 'o riavulillo

- eh chest'acqua m'aggi' 'a vève o mòro o campo…



- È caduta una stella dal cielo
e in mezzo al mare si è sfogliata
e dall’interno è apparsa una fanciulla
con i riccioli in fronte e con gli anelli alle mani

- In mezzo al mare è nata una scarola
i turchi se la giocano a primiera (gioco di carte napoletano)
chi per la cima e Elena

(Tra i cantatori di tammurriate esiste la consuetudine d’interpolare i versi ottonari con espressioni verbali stereotipe che creano molte possibilità di variazioni. Le parole introdotte nella “barzelletta”, in coda agli ottonari, hanno la funzione di modellare la rima, baciata o assonante, dell’ottonario seguente. Di queste brevi espressioni, essenzialmente foniche, le più usate sono: “e bbà”, “e ccòre” (e cuore), “e Anna”, “e nnella” (e Annella), “e llèna” (e Elena), “e arena”, ecc. Questi brevi stereotipi non presentano dal punto di vista letterale nessuna attinenza col senso logico del verso, o col senso di tutta la canzone stessa, sebbene non sia difficile individuare in essi richiami codificati dei vocalizzi tipici del linguaggio della seduzione).

non tirare che si spezza
hai una spina sotto il piede
e ce l’hai e bbì e bbà
salta il muro e vieni qua
un bacio in bocca ti devo dare

- … per la cima e chi per la radice
chi per la cima e chi per la radice
beato chi vince questa ragazza
questa ragazza è figlia di persona notabile

- … questa ragazza è figlia di persona notabile
e porta la gonna tutta di fiori
e nel petto porta e bbà
di sera e Napoli qui adesso

- e nel petto porta la stella Diana
stella Diana quando tu apparisti
l’aria annuvolata come la rischiarasti

- l’aria annuvolata la rischiarasti
a quel posto dove ti posasti
una fonte d’acqua santa facesti sorgere

- una fonte d’acqua santa facesti sorgere
chi vuole bere l’acqua di questa fonte
deve tenere i zecchini (soldi)
e deve tenere i zecchini

- e deve tenere i zecchini pronti contanti
i miei zecchini sono sempre pronti
quest’acqua mi voglio bere e Camilla
un canarino e un cardellino
uno grida e l’altro strilla
un altro fa il diavoletto

- quest’acqua mi devo bere sia che mi faccia vivere sia che mi faccia morire…


Questo canto è uno dei più diffusi e conosciuti nella tradizione popolare campana. L’accentuata emblematicità dei suoi versi ci porta a ricercare una possibile chiave di lettura nel tessuto simbolico-magico del mondo popolare napoletano.

Il primo segno che vi si legge è una “scarola che nasce dal mare”. Innanzitutto va detto che la “scarola” o lattuga, è una pianta alla quale la tradizione popolare attribuisce molti significati e straordinari poteri curativi e magici.
(In una favola popolare campana, addirittura una fanciulla si ingravida dopo aver mangiato una “scarola”. Evidentemente per tali motivi la “scarola” si trova nella tradizione popolare della Campania come tipica pietanza rituale del Capodanno, con evidenti significati augurali e fecondanti. Non a caso il popolo napoletano con il termine “scarola” indica scherzosamente il sesso femminile di una fanciulla.)
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Questa magica “scarola” nasce dal mare come antica divinità femminile, apportatrice di fertilità. A conferma di ciò, la prima strofa ci ritrae l’immagine suggestiva di una stella caduta in mezzo al mare, dal cui contatto nasce una bellissima fanciulla con i capelli “ricci” e gli “anelli” alle mani.
Ed è ancora all’immagine dei capelli “ricci” che il popolo associa la magica “scarola”.
Gli “anelli” poi, oltre che segno femminile, rappresentano un evidente segno nuziale e auguralmente fecondante.
I versi introducono poi un segno di contrasto, i “turchi”, che nella tradizione indica il colore “nero”, il maschio contrapposto alla femmina, il fallo sotterraneo, l’oscurità contrapposta alla luce o la notte contrapposta al giorno.
In altri termini i “turchi” rappresentano anche esseri che stanno al di là del mare, ed in questo sono associati alla morte, ad una morte o una violenza naturale che viene da un altro mondo (in ciò collegabili anche alle storiche incursioni sulle spiagge della Campania).
A Maiori, località della Costiera Amalfitana, sui cui alti monti c’è un Santuario in cui si venera la Madonna Avvocata, si è tramandato uno stile di tammurriata che va ricondotto alla storia delle invasioni turche. Infatti è l’unica zona della Campania dove la performance della tammurriata è eseguita da un gruppo, anche molto numeroso, di “tammorrari” (coloro che suonano la tammorra), piuttosto che da uno solo. Questa caratteristica mette l’accento sulla funzione di “segnale d’allarme” che assumeva il fragoroso battito delle tammorre, quando s’intravedevano all’orizzonte le navi dei turchi.

Eppure sempre dallo stesso mare (elemento originario di tutto), nasce, oltre che il pauroso e notturno segno dei turchi, anche la luminosa scarola-fanciulla, generata dalle mistiche nozze del cielo e del mare.
A questa divinità femminile si associano altri elementi quando si parla di una “stella Diana” che brilla sul suo petto.
Ecco allora l’evidente segno solare indicato nella stella come luce e fuoco, peraltro da collegare anche a un mondo celeste.
Tuttavia, se la stella porta con sé una chiara simbologia solare, il segno “Diana” si associa anche ad un antichissimo segno notturno e lunare.
Ad evidenziare ulteriormente questo significato “doppio” della simbologia espressa, contribuisce il verso successivo: «Chi per la cima e chi per la radice». Qui è introdotto il “doppio” costituito dagli elementi “alto” e “basso”, ossia la doppia componente nello stesso personaggio, divino in senso celeste e sotterraneo in senso di vita e di morte, di luce e di tenebre.
Ed è «beato chi la vince», come dice il verso successivo, nel senso che è felice chi conosce lei in tutti i suoi aspetti, nella vita e nella morte, in quanto tutto fa parte di un solo soprannaturale che poi s’identifica nella totalità della natura stessa.
In tal senso, perfino il segno dei “turchi”, apparentemente negativo, diventa segno naturalmente associato alla fanciulla e che, nell’inevitabile contrapposizione tra notte e giorno, morte e vita, si riconduce ad un naturale e semplice gioco: «i turchi se la giocano a primiera».

L’analisi del testo di una tammurriata, come abbiamo visto, è estremamente affascinante e coinvolgente perché con essa riusciamo a tracciare una mappa dell’articolato corredo simbolico della cultura contadina campana.
Tuttavia la sola analisi del testo, sebbene approfondita, non esaurisce tutto il significato o la funzione della tammurriata. Infatti per avere un’idea completa e soddisfacente di quest’arcaica espressione contadina non possiamo prescindere dal “contesto”.
Proprio in quanto fenomeno “multimediale”, proprio in seguito alla polisemia dei messaggi che lanciano gli artefici di questa espressione, è necessario considerare nel loro insieme sia gli elementi del testo, sia quelli gestuali delle mimiche e dei balli, sia l’ambiente in cui avviene tutto ciò.
Quindi non avremo mai un’idea precisa di cosa sia una tammurriata fin quando non ci rechiamo sul posto del pellegrinaggio, al tale Santuario, o nei pressi di tale grotta, luoghi in cui la tammurriata è suonata, cantata e ballata per ore intere, da tarda sera fino all’alba.

TRA SOGNO E REALTÀ: LA FESTA

Riporto alcuni estratti della testimonianza di Roberto De Simone, il maggior studioso della tradizione napoletana, sulla festa per la Madonna di Materdomini, una delle feste più belle della Campania. Una festa notturna che si svolge nella zona di Nocera – Salerno tra il 14 e il 15 agosto. Durante questa festa si venera un’antichissima immagine della Madonna e si balla davanti al Santuario. Di Materdomini si parla fin dal Medioevo.



“… più volte mi avevano parlato di questa bellissima festa notturna, descrivendola con i termini più entusiastici di questo mondo. E fu così che la notte del 14 agosto, decisi di mettermi in viaggio e raggiungere entro le ventitré ore il luogo della festa nei pressi delle campagne presso Nocera dei Pagani.
A chi vi si reca per la prima volta, il viaggio può sembrare molto lungo, e invece vi rimane breve nel ricordo, quasi fosse stato un sogno, tra gruppi di giovanelli che vi si recano essenzialmente per ballare, donne anziane con figliole più giovani, e uomini a due, a quattro, a comitive, che per le campagne, senza che gli si domandi nulla, vi indicano nel buio il percorso da fare…

… Improvvisamente si arriva come ad un’antica porta di città, e allora, come per incanto mi ritrovai davanti ad una strada luminosissima, in salita, dove una folla di persone camminava fra due lunghe file laterali di tavole imbandite, di frutta esposta, di limoni, di piante e di mille e mille odori…

… In questo cuore della festa, volsi uno sguardo alle tavole imbandite dove, in onore di Nostra Signora di Materdomini, si mangiano a sazietà (benché tutte di magro), un’infinità di pietanze che indicano una veglia corale di trapasso, una vigilia di miracolo, un’attesa millenaria. Eppure, in tutto ciò niente vino, ché non è festa da vino, né può bersi in una notte come questa.
Spinto in questo corpo di folla, arrivai finalmente al luogo santo, dove ecco una grande facciata illuminata fantasticamente, due grandi porte di un tempio spalancato, e un’area antistante dove sembra doversi radunare tutta la gente del mondo.
All’interno, verso Oriente, scorsi l’immagine venerata, quella che nella festa è il centro dell’attenzione e della devozione di tutti. Tutti infatti vi passano dinanzi in questa notte e qui depongono le loro devozioni, la loro natura, il loro trasporto.
E sono genuflessioni e percorsi in ginocchio fino a Lei, situata sotto un ricco baldacchino di marmi preziosi, mentre nell’aria risuonano i canti che la appellano “La Signora”…

… Intorno al prezioso tronetto della “Signora” gira dunque la folla dei tanti pellegrini i quali, dopo aver deposto l’omaggio rituale, con la mano sinistra sfregano la pietra che è alle sue spalle e poi si toccano il viso, il collo e la testa, quasi a trasmettere al proprio corpo l’essenza magica e divina della pietra stessa…


… Riconobbi allora Antonio, il grande suonatore di tamburo, il quale battendo il ritmo già da una mezz’ora, cominciava ad atteggiare quella sua strana espressione estatica e a volgere gli occhi verso l’alto, verso un qualcosa che solo lui sembrava scorgere.
Intorno a lui si scaldò l’ambiente, si formò un gran cerchio di persone e tutto sembrò muoversi sullo stesso binario ritmico imposto da Antonio o imposto ad Antonio da tutti i presenti.
A un certo momento, quando il ritmo crebbe d’intensità e pareva far ondeggiare anche le pietre, ecco un giovane sui diciotto anni, il quale sollevando la maglietta fino al petto e scoprendosi nudo fino alla cintura dei pantaloni, incominciò a dimenare i fianchi alzando le braccia e socchiudendo gli occhi e la bocca tra l’entusiasmo degli occhi dei presenti sempre più lucidi, eppure senza che nessuno avesse bevuto vino.
Al movimento di questo giovane, un altro ragazzo più aggressivo, capelli rossi e grida di entusiasmo folle, si gettò nella danza, circuendo il primo danzatore e mimando con la lingua mille inviti alle sue membra impazzite dal ritmo.
All’unisono, il battito delle mani di tutti seguiva il tamburo di Antonio che, con lo sguardo sempre più perso nel vuoto, assorbiva il peso ritmico di tutti i presenti. Lo sforzo della sua immane fatica a suonare per ore intere senza interruzione sembrava quasi nullo se non fosse stato per quei rivoli di sudore che gli colavano dalla fronte e che egli faceva scivolare lungo il viso scuotendo la testa di tanto in tanto. Solo allora, quasi come per un rito, uno dei presenti con un asciugamani bianchissimo gli tergeva il volto e la fronte senza che egli interrompesse nemmeno per una battuta il ritmo esaltante della danza.
A un tratto, chissà come mi accorsi che si cantava, e allora scorsi i due cantatori che lanciavano i loro canti religiosi di un erotismo magico e misterioso, presente ed incorporeo come la danza di quei due giovani che sembrava dipinta nell’anima di tutti i presenti, o sembrava scolpita negli occhi della stessa immagine di Nostra Signora…





… nella notte di questa festa le persone non appartengono a se stesse proprio perché appartengono al corpo unico di tutto il mondo…

… Man mano si aggiunsero altri danzatori. Uno in particolare chiamato Angelo: basso, tarchiato, con gli occhi obliqui come quelli di una capra e le mani nodose come il legno delle stesse castagnette che ostinatamente egli faceva scoppiettare.
Con gesti solenni eppure violenti, Angelo mimava mille atteggiamenti con un altro uomo dal viso impassibile, gli occhi bassi e le labbra atteggiate ad un fisso ed ambiguo sorriso. Ed erano gesti d’invito, di incontro, di fuga, di compiacimento ora succubi, ora aggressivi.
Ed ecco Alfonso accesissimo in viso, con le sue espressioni singhiozzate: «Oi' Maro' … ne' Maro' ».
Ed ancora Virginia con i suoi canti gutturali e tutti a farle eco e la santa immagine esposta sempre più viva, luminosa e presente.
A mezzanotte, culmine ed inizio della festa, le danze e i canti presero il loro più vero ed antico aspetto orgiastico. I suoni e i ritmi giunti al loro “zenit” rimasero tali fino al sorgere dell’alba, tra le espressioni erotiche, le danze sfrenate, i cembali, i tamburi, le nacchere, e infine le grida di persone che imitavano il raglio dell’asino, il nitrito del cavallo, lo squittire degli uccelli e il verso delle oche e delle galline. Tutti gli animali che qui sembrano trasferiti nelle persone intervenute alla festa, o ancora tutte le persone quasi trasformate negli animali già nominati.”





Nelle parole di De Simone ritroviamo lo spirito della cultura campana sintetizzato nella maniera più completa e appassionata.
Prendiamo coscienza di cosa sia veramente una festa contadina: un evento che si realizza in uno stato alterato della percezione spazio-temporale, in un “tempo straordinario” separato dal “tempo ordinario” della quotidianità, e ad esso complementare.






Possiamo osservare inoltre i segni delle usanze imposte dalla Chiesa cattolica: il magro, l’assenza di vino; e in contrapposizione i ben più numerosi segni derivati dai culti pagani:

- l’immagine della Vergine esposta “verso Oriente”, il luogo dove sorge il sole, simbolo di nuova vita e di fertilità, e richiamo alle più antiche civiltà, come quella egiziana;
- l’atteggiamento dei fedeli, in cerca di grazia, che percorrono in ginocchio l’intero Santuario, o che sfregano la pietra su cui è disposta la sacra immagine “e poi si toccano il viso, il collo e la testa, quasi a trasmettere al proprio corpo l’essenza magica e divina della pietra stessa”;
- il loro appellarsi alla Madonna come “La Signora”, che ha un richiamo evidentissimo alla “Grande Signora d’Oriente”, l’antica e pagana Diana;
- la danza estatica del giovane diciottenne, che si scopre il petto e che si dimena sui fianchi alzando le braccia e socchiudendo gli occhi, non può non farci venire in mente la danza pagana di re David davanti alle Tavole della Legge, in onore del suo dio, il Dio dei cristiani;
- le grida e gli atteggiamenti animaleschi dei “posseduti”, che ricordano l’ebbrezza dei baccanali e l’abbandono erotico delle orge dionisiache.




CONCLUSIONI


Tutto è rivolto alla “Figliola” come vergine, madre, sorella, sposa, come terra, albero, orto, giardino, rosa, fontana, pozzo, come montagna, castello, palazzo, casa, chiesa, e come Sole e Luna, come barca, fiume, mare in cui perdersi, annegare; ma anche viaggiare e poi tornare, come grotta, caverna dalla quale si è nati ed alla quale si vorrebbe sempre ritornare.

Solo così si capisce la funzione della tammurriata che nella sua concitazione esprime il costante desiderio, da parte di chi la esegue, ovvero da chi la vive, di salire fino alla “Figliola” per stare finalmente tra le sue braccia.

Ma la “Figliola” è sempre alta montagna, torre, palazzo o castello impenetrabile, o penetrabile solo nel momento della morte, perché è nello stesso grembo della terra che si ritorna.

Ho definito sopra due elementi-chiave della cultura contadina campana: il rapporto dialettico tra gli opposti, e la coesistenza di catene di doppi significati.

Per concludere voglio introdurre un terzo elemento-chiave che inquadra perfettamente l’universo psicologico dei contadini campani: “tutto si può rovesciare”. In questo motto di saggezza popolare possiamo individuare la componente teleologica del pensiero contadino: «I miei grossi sacrifici saranno compensati con un premio finale!». E così la nera sorella-montagna-vergine-brutta, diventa la più bella delle sue sei sorelle, proprio perché è nello stesso tempo vergine e madre, in grado di partorire anche le sue stesse sorelle.

Ed è sempre a lei che si tende, lei che sta in alto su una montagna o giù in una valle, o nel mare o sotto terra, comunque sempre al di là di chi vorrebbe raggiungerla pur avendo paura di raggiungerla. E per raggiungerla al di là si passano i ponti, si traversano i fiumi, si varca il mare in un eterno viaggio di andata e ritorno, come il moto dell’onda sulla spiaggia, come il coito di un universo di angoscia e di amore.
d.f. son sette sorelle, 2011




A Maronna nera Mamma schiavona
La devozione per la Madonna di Montevergine il santuario mariano piu' visitato del meridione (circa due milioni di visitatori all' anno) ha avuto origine nel lontano 1119, al tempo di San Guglielmo da Vercelli, suo fondatore.
Secondo un antico canto popolare, la più brutta delle sei Madonne campane,(Pompei, Mugnano, Santa Filomena, Carmine e Bagni) scelse di andarsene lontano a causa della sua bruttezza e perchè era anche tutta nera.
"...se ne jette a Muntevergene..er' a Maronn' 'e Muntevergene".
Il canto si conclude che ” Mamma Schiavona,”oltre che la più miracolosa delle sei sorelle divenne anche la più bella.

Lo schema iconografico si inserisce nella tradizione delle cosiddette "Madonne di San Luca" o "Odeghetrie" tipicamente bizantine. Controverse sono le attribuzioni del quadro.
Secondo la tradizione si tratta di un quadro portatato da Baldovino imperatore d'oriente che nella sua fuga portò solo la testa e la tavola fu finita da un anonimo pittore del trecento che ne completò il corpo e aggiunse gli angeli. Fino alla fine del secolo scorso quasi tutti i critici erano d'accordo che il quadro fosse invece opera di Montano d'Arezzo; sennonché nel 1989 la Guarducci, una nota studiosa di pittura bizantina, ha ripreso la tradizione, sostenendo si tratta di una Odeghetria, tipica madonna Bizantina proveniente dalla chiesa di oriente. Diversi studi sono ancora in corso.
Ogni buon devoto ogni 11 settembre, secondo la tradizione, dovrebbe recarsi in pellegrinaggio. Anticamente si organizzavano carri addobbati con mirti e rose che trasportavano i fedeli sino ai piedi della montagna. Circa trecento se ne contavano sulla strada di Poggioreale mentre si dirigevano verso il Partenio il monte su cui sorge il santuario.









“Sei carlini per persone
Coppa lu carro de Franciscone
Jamma a truva' mamma schiavone
Figliole figliole !!!

Ce ne jammo a li frisco e senza sole
Nce ne jammo a truva' Mamma Schiavone”


Queste lunghe carovane si sono perpetuate fino a poco tempo fa. Lunghe colonne di auto noleggiate con chauffer partivano da piazza Cavour o da largo di Santa Lucia per portare le popolane della Sanità e de Pallonetto e degli altri quartieri popolari di Napoli. Auto grosse scoperte tutte inghirlandate e infiorate di garofani bianchi trasportavano “queste antiche matrone” tutte ingioiellate con scialli neri” il tuppo con la pettinessa “accompagnati dai propri mariti….comari e “cumarelle”. Tutti per la “sagliuta” , così si definisce il pellegrinaggio al monte. Questa secondo la tradizione doveva avvenire a piedi….molti per devozione la effettuavano scalzi. E durante la salita si alternavano canti religiosi e tradizionale al suono di tammorre e tammurrelle e nacchere.


Poi una volta alla chiesa la visita alla Madonna con scene di pathos , i canti cessavano e si udivano solo invocazioni , richieste di grazie , pianti in un isterismo collettivo. Dopodichè ancora balli e canti nel piazzale dell'abbazia, dove si consumava il tradizionale torrone ,“noci nocelle e castagne infornate” le tipiche specialita' avellinesi che si vendono sulle numerose bancarelle che circondano la chiesa.




Poi il ritorno …….
“ Simme jute e simme venute

Quante grazie che avimme avute !!! ”

Questo pellegrinaggio era cosi sentito nella tradizione popolare, che in molti contratti matrimoniali dei secoli scorsi era specificato fra le prime clausole che “la sposa dovesse essere portata in pellegrinaggio a Montevergine almeno una volta all'anno”. E spesso i mariti atterrivano le mogli minacciandole di non condurle.
Oggi la cosa è un po' diversa, ma la devozione per la Madonna nera è tutta viva nella fede popolare. I pellegrinaggi sono piu' comodi la “sagliuta avviene in auto o in comoda funicolare sebbene ci sia sempre qualche gruppo di fedeli che mantiene viva la tradizioni ed effettua la “sagliuta a piedi". Al suono delle antiche tammore perpetuando gli antichi canti.



























« (...)Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d'Italia; nella quale assai presso a Salerno e una costa sopra 'l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d'Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane, e d'uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri.(...) »





















(Giovanni Boccaccio, Decameron- II novella, IV giornata)





CANTI MAIORESI

I testi appartengono alla tradizione orale della costiera, nello specifico di Maiori, nel presente libro sono stati riscritti e rielaborati completamente da Domenico Fauceglia.
























MAIORI
E IL CANTO POPOLARE





Canzone popolare nell’accezione più comune significa canzone che ha avuto successo e che tutti conoscono e che cantono tutti, non è il caso dei canti popolari della costiera amalfitana, dato che ricercarli è stata ardua impresa.
Per parlare di musica popolare bisogna rifarsi alla poesia popolare, musica e poesia non sono cose distinte non è un caso che i greci e i romani cantavano le proprie poesie accompagnandosi con la lira e con la cetra, la più affascinante definizione di poesia popolare è quella di Ramon Menendez Pidal che individua nella rielaborazione della poesia il carattere distintivo della popolarità del canto. La poesia popolare è quella anonima , è tale non perché sia smarrito il nome dell’autore, bensì perché essa è il risultato di molteplici creazioni individuali che si sommano e si intersecano di continuo. Così, uno trova una canzone, cento l’ascoltano e la ricordano. Le cantilene udite dai suoi parenti, la madre le ricanta ai suoi figlioli: questi le insegnano ai nipoti. Quando viene l’uomo letterato e se le fa ripetere e le ferma in caratteri scritti, chi può dire per quante bocche siano già passate queste cantilene? La canzone è la stessa. Quella trovata da quell’uomo sparito nella folla, ma qualche particolare di essa o è perduto o è variato, non fosse altro per la nostra capacità di ricordare le cose o comunque per l’evolversi della lingua parlata, come ci insegna la storia.





L’ardua ricerca del soave

Quando uno pensa alla Costiera Amalfitana, pensa ad un luogo in cui i movimenti di popolazione, sia per ragioni di turismo che per ragioni anche di spostamenti lavorativi, sono da molti decenni così fitti e complessi che è veramente difficile pensare alla Costiera Amalfitana come un luogo fermo nella storia. In genere quando pensiamo al mondo tradizionale e alle conservazioni del mondo tradizionale, pensiamo appunto a dei luoghi fermi, immobili, dove non c’è stata trasformazione o ricambio.
La Costiera sembrerebbe essere il contrario di un mondo di questo tipo, di un mondo dove almeno da duecento anni i flussi di culture, persone, visioni del mondo diverse, sono così fitti e complessi che se uno, ripeto, ha una mentalità, un riconoscimento della tradizione nei luoghi immobili si chiede: “ma come è possibile che sia rimasto qualcosa?”. Noi sappiamo che questo “qualcosa” è veramente straordinario ed è tutto quello che riguarda il culto e la tradizione alla Madonna dell’Avvocata. Ma io non mi limiterei solo a questo, sia pure straordinario fenomeno e espressione del mondo tradizionale.
Per chi conosce la Costiera non solo per la settimana all’anno di vacanze che si fa, ma per viverci o per frequentarla e non solo nei luoghi ufficiali ma anche nei luoghi più interni, sa bene che c’è una forte componente di visione “tradizionale” del mondo che è ancora molto presente.
Ho avuto la fortuna di vedere il video che Sasà Mari ha girato, il quale documenta uno di quegli aspetti straordinari di conservazione e trasformazione al tempo stesso, che sono le tecnologie legate ai terrazzamenti, ci dicono storie molto complesse ma altrettanto ci dicono trasformazioni molto avanzate.
Ecco, la peculiarità della Costiera è proprio questa, di essere per certi versi all’avanguardia delle trasformazioni e al tempo stesso capace di dialogare con il proprio passato, con la propria intensa e profonda storia culturale. Basta parlare con persone non soltanto anziane ma attente, non superficiali, non completamente decapitate dalla televisione, ma interessate invece anche a parlare con la propria storia, con il proprio passato per rendersi conto che la Costiera Amalfitana è un luogo di straordinaria ricchezza umana, simbolica e culturale, e naturalmente poi il “centro” del mondo, per così dire totem della Costiera è appunto, per così dire, il culto alla Madonna dell’Avvocata, a qui però non vorrei ridurre l’intera complessità; certo è una dimensione importante e profonda rispetto alla quale sul piano musicale si è conservata questa forma di tammorriata. Anche qui la parola “conservata” andrebbe messa tra virgolette perché la tammorriata della Madonna dell’Avvocata di oggi non è la tammorriata della Madonna dell’Avvocata di trenta anni fa, che a sua volta non era la stessa di sessanta anni fa, e queste sono piccole differenze che magari i musicologi o quelli più addetti a queste cose riescono a cogliere rispetto invece a chi non ha una esperienza, una conoscenza musicale.
Ma al di là di queste immancabili trasformazioni, e qui apro una parentesi, le cose che non si trasformano sono le cose morte, le cose che si trasformano sono le cose vive, quindi se la tammorriata si è trasformata rispetto a trenta anni fa è perché è viva, perché funziona, è perché ha ancora qualcosa da dire alla gente che vive oggi e non cento anni fa, e comunque l’importanza di questa tammorriata sta nel fatto che, nel senso tecnico e musicale viene suonata da più tamburi, un tamburo ha una maggiore dimensione di conflittualità, di violenza, di aggressività, di “maschilità”, però non è tanto questa la dimensione, quanto il fatto che ormai è veramente una delle poche che in Campania si conserva “in funzione”; “in funzione” è un termine un po’ tecnico con il quale si vuole dire che non serve più soltanto fare gli spettacoli sui palchi o a fare i CD, per altro legittimissimi e bene accolti, ma innanzitutto viene suonata in occasioni devozionali, cioè viene suonata all’interno del ciclo devozionale del pellegrinaggio sul monte, mentre quand’ero bambino, quindici anni fa, il tempo in cui ho incominciato ad andare con i miei genitori in giro per feste e pellegrinaggi ce ne erano tantissime di tammorriate “in funzione”, adesso sono veramente molto poche, e molto poche intendo dire non la tammorriata in sé, perché dovunque andate trovate la tammorriata, ma quella tammorriata, quella modalità particolare.

Voglio dire, se andate alla Madonna dell’Arco, il lunedì in Albis, il pomeriggio, sentite un sacco di tammorriate, ma sentite la tammorriata di Marcello Colasurdo, la tammorriata di O’ lione, la tammorriata del gruppo di Scafati, cioè le tammorriate di quelli che fanno ormai spettacolo (ripeto ben vengano, non ho nulla contro di loro) ma non sentite più, o quasi più, la tammorriata della Madonna dell’Arco, mentre se andate su e vi fate tutta la salita e riuscite ad arrivare in cima , lì sentite la tammorriata della Madonna dell’Avvocata , poi potete sentire anche alte modalità, ma quella tammorriata è la tammorriata della devozione.
Sulla parola devozione bisogna intendersi, non è la devozione dei nostri nonni o bisnonni, cioè una devozione contadina completamente immersa in un mondo contadino, agrario, non esiste più quel mondo, è inutile che ci facciamo illusioni; è una devozione più complessa, che non riguarda solamente il rapporto della religiosità contadina arcaica, ma riguarda anche il rapporto con la propria identità locale.

L’identità locale è uno dei temi più importanti nel nostro presente e certo è uno dei temi che meriterebbe una riflessione perché ci sono le luci e le ombre quando parliamo di identità locale, molte volte le identità locali sono “in pensione” a tavolino, e non corrispondono a nessuna storia reale.
Invece nel caso dell’Avvocata, questo ritorno di identità locale, questo orgoglio che adesso i maioresi sentono per la loro tammorriata, sulla loro Madonna, è fondata su una storia concreta, reale, su una storia documentabile rispetto alla quale gli attuali abitanti di Maiori fanno una selezione, cioè sono scomparse certe cose mentre invece vengono confermate altre cose, e concludo sottolineando proprio la positività di questo lavoro, che credo si apra con questo libro ma non si chiuda con questo libro, altrimenti non sarebbe il caso di un impiego e di energie tali, per fare solamente un libro, con tutto il rispetto per questo lavoro.
Il libro, credo, sia un passo lungo un percorso, un cammino, che va affrontato.
E da questo punto di vista questo passo è un passo molto significativo, perché io conosco i suonatori della tammorriata dell’Avvocata da molto tempo e li ho sempre considerati, come loro sanno benissimo, delle persone che suonano in una maniera straordinaria e fanno gruppo in una maniera straordinaria.
Per esempio, sul piano dell’impatto visivo
e dell’ascolto hanno una potenza spettacolare straordinaria.












































DEDICA

Giovani alla ricerca delle radici.
Un gruppo musicale: i discede.
Sentir suonare la tammorriata dell’Avvocata (sul piano proprio della percezione di un pubblico rispetto ad un palco) e poi sentire un’altra tammorriata, la differenza si coglie in maniera enorme proprio nella dimensione spettacolare, perché la potenza fisica, la dimensione concertistica, l’impatto emozionale che produce questa tammorriata, ma suonata da loro (e non suonata da chicchessia), dai discede, è talmente forte nella sua dimensione espressiva, anche spettacolare ma poi comunitaria, che, se tu li hai visti una volta, non te li scordi più, rispetto ad altre realtà.



Il caso di questo piccolo territorio, in fondo, così poi contratto in sé come un foglio che si tenga stretto e che si possa poi slargare e diventare ampio, così come la Costiera artigliata nelle sue variegate e fortissime contrazioni, immaginiamola che potesse dispiegarsi, allargarsi, diventare infinitamente grande, ebbene, la Costiera ha le caratteristiche per conservare e per trasformare, per conservarsi e trasformarsi, ha caratteristiche particolari.
Fino all’Ottocento non c’era la strada che unisce Maiori e Amalfi a Salerno ed era difficilissimo raggiungere le cittadine, i piccoli paesi della Costiera.
La Costiera conserva questo dono, questa capacità silenziosa di restare chiusa, di essere in qualche modo irraggiungibile.
La Costiera conserva nei suoi stretti, piccoli solchi la sua indisponibilità a essere facilmente raggiungibile, e quindi in qualche modo ha le caratteristiche giuste per tenere, conservare, trattenere, trattenere la propria storia, e per riproporla nuovamente.
Pensiamo al caso di Maiori.
Dopo il 1954, nella notte tra il 24 e 25 ottobre del 1954 Maiori fu colpita da una tragica alluvione, Maiori non era più Maiori, era diventato un paese che non apparteneva in qualche modo alla orografia, alla continuità della Costiera, sembrava di trovarsi in un’altra zona d’Italia.
Maiori è stata strappata a se stessa: la violenza dell’acqua, della tempesta che tagliava l’aria era irriducibile.
Ora, la serietà di questo sforzo di studiare la Costiera consiste anche nell’aver voluto lavorare non sulla storia, sulla storia della voce della Costiera, ma nella storia.
Non sulla storia, cioè porsi un po’ emotivamente, un po’ per attrazione musicale a guardare e a conservare. No! è immettersi nella storia, non sulla ma nella, cioè sentirsi “in funzione”, sentirsi cioè all’interno di ciò che si trasforma.


d.f. 2011



































LA CANTATA DELLA TRASPORTATRICE DI LIMONI



La “Cantata della trasportatrice di limoni” può agevolmente essere inquadrata nel ricco filone del canto di lavoro. Si tratta di una sorta di “rivendicazione” in versi dei diritti ignorati delle trasportatrici con efficacissimi passaggi.
Un brano godibilissimo e “impegnato” nel quale si tratteggia la figura del padrone spregiudicatamente incurante dei disagi dei lavoratori alle prese con problemi di sopravvivenza segnatamente per i figli delle trasportatrici, ai quali non è possibile provvedere come una madre vorrebbe e che (si lamenta la lavoratrice-madre) “si nun ce dongo niente, s’abboccano co’ viente.

La costiera amalfitana è conosciuta per il colore azzurro del mare e del giallo dei limune, riporto ora un canto di lavoro che è stato tramandato oralmente (come detto nell’introduzione sulla musica popolare) in cui viene descritto il faticoso trasporto di limoni eseguito dalle donne del luogo.
Questo lavoro , che oggi viene svolto da pochissimi uomini, consisteva ne trasportare ceste piene di limoni, dai terrazzamenti a mare.
Il percorso veniva ripetuto più volte al giorno e il lavoro, pur essendo molto faticoso, veniva poco remunerato.






TESTO


È a solita jurnata ‘nu juorno dopp’ a nato
che fiacca stammatina me’ sent’ na mappina
a me nun me ne ‘mporta si pesa chesta sporta
stà sciorta ‘ccà m’attocca pè sazià sta vocca


che faccia de mbruglione ca tene stu padrone
vennenne li limune s’è fatt li miliune
pe mò n’aiza a voce m’aggia abbraccia sta croce
ma adda venì o mumento ca l’adda venì a mente


o chiagne o chiamme e muorte
pesante è sempe a sporta
purtarla ncopp’e spalle me ce aggio fatto ‘o callo
si po’ te siente stanco oppure jett’ o’ sanghe
è proprio nà disdetta nisciuno te da retta


me dole chistu pere pe chella storta e ajere
mannaggia pe’ dispietto me stesse dint’ò lietto!
ma tengo e’ criature sulo pe’ loro, ‘o giuro
je faccio o’ sacrificio e magno cap’alice


pe chello ca m’abbusco
nun magno manco a Pasqua
e pure o’ piattaro se fa’ sempe cchiù caro
e’ diece figlie miei magnano tropp’assaje
parlanno cu’ crianza me vene o’ male e’ panza







si nun ce donghe niente s’abboccano co’ viento
e’ sorde pisto pisto s’è magne ‘o farmacisto
magnate figlie miej e nun penzate e’ guaie
pe’ mmo’ fatico io po’ faticate vuje


allontanata sia pe sempe a carestia!
ca pure chi se crede a morte annanze vede!
facenn’ sta’ cantata cchiù priest’ so’ arrivato
e comme gir e vuot se saglie n’ata vota.









































RUSSO MELILLO


Molto interessante la natura “modulare” di “Russo melillo” strutturato in due momenti: il primo affidato alla sola voce di una anziana donna del luogo nello splendore della nuda melodia, il secondo è costituito dall’intervento del gruppo anche in questo caso perfettamente in linea con l’atmosfera simpaticamente e garbatamente licenziosa.
E’ il canto dispettoso di una ragazza abbandonata che rivendica alla sua positiva influenza l’antica vitalità dell’innamorato ormai ridotto a condizioni pietose.
Impagabile l’invito finale a liberarsi dall’attuale compagna, un invito di irresistibile forza espressiva: “levate sta’ gialluta ca puort o lato”.


TESTO




Russ’o’ melillo mio russ’o’ melillo
Quanno facive l’ammore cu’ mmico
Eri cchiù russo tu ca nu’ granato
‘a ca nun faje cchiù l’ammore cu’ mmico
t’è fatto giallutiello e staje malato
si vuò turnare a l’amicizia antica
levate sta’ gialluta ca puort o’ lato.










SEGA MULLECA

Sega mulleca è un’antica filastrocca, riportata integralmente dalla tradizione orale, che le donne cantavano ai bambini per intrattenerli e farli divertire.
Ma quando veniva recitata lentamente fungeva da ninna nanna.



TESTO

sega mulleca iammo a Gaeta
e che ‘nce iammo a fa
iammo a piglià lu grano
e lu grano, lu grano chi o’ porta
e o’ porta na gallina zoppa


Chi l’azzoppata, o’ stantaro d’a porta
a’ porta addò stà
a’ sturduto o’ fuoco
e o’ fuoco ha stutato l’acqua
e l’acqua se l’ha vippete a’ vacca


sega mulleca e a vacca addò stà
stà ‘ncopp’ a’ na’ muntagna
e o’ lupo ca s’a’ magna
e s’a’ magna, s’a’ magna arreto Chiunzi
e tu si, tu si ‘nu piezz’ e’ strunz.









LU PREVETE

Il testo di questo brano tradizionale, riprende fatti realmente accaduti e spesso raccontati nelle tammurriate maioresi.




TESTO



Ah! ch’ è succieso a li Pavani
lu prevete ha vasato a na’ figliola
lu prevete ha vasato a na’ figliola


Faceva mente che la confessava
e ‘a pietto le tiraje o meglio ciore


io ‘nce lu dissi prevete che faje
te vaco ad accusà addò munzignore


Ah! ch’è succieso a li Pavani
lu prevete ha vasato a na’ figliola
lu prevete ha vasato a na’ figliola




‘O munzignore a me che me po’ fare
me leva a’ puttanella e po’ me ‘nzoro



Zi prevete, zi prevete ‘nzuratte
comme te fire ‘e sta senza mugliera


Ah! ch’è succieso a li Pavani
lu prevete ha vasato a na’ figliola
lu prevete ha vasato a na’ figliola


E quanno ‘a sera te vaje a vutare
‘nce trovi ‘o lietto friddo e te disperi


E quanno ‘a notte te vaje a vutare
t’abbracci ‘o cusciniello pe’ mugliera


Ah! ch’è succieso a li Pavani
lu prevete ha vasato a na’ figliola
lu prevete ha vasato a na’ figliola






















REGINNA



Anche questo è un testo ripreso dalla tradizione orale maiorese, è uno scioglilingua che veniva cantato per intrattenere e far divertire i bambini.




TESTO

Trezza maruzza
trezzetella ‘a fore ‘o puzzo
Una streca e n’ata lava
n’ata aspetta a Santo Vito
Ca’ n’cio manna lu marito
lu marito sta n’castiello
e aspetta li vucielli
li vucielli speziali
mazza n’capa a lu crapare
lu crapare spellecchia pelle
mazza n’capa a Isabella
Isabella cucinava
e o’ sorice abballava
abballava dint’o’ pertuso
e Isabella tutta scuriosa
nun posse fa nu passe
pe ‘ncopp’ o’ marciapiede
ca se ne addona ‘o brigadiere
brigatiè nun fa ‘o mbicciuso
mett’ a’ mano ‘mbaccio ‘o pertuso
escie o’ sanghe curioso
ca me pare na’ pietà
stasera e’ quatt’e mmeza
quatt giuvane’ ncaruzzella
iammo a San Francisco
‘a cinche lire amma pavà
‘a cinche lire nun ‘a tengo
songo ‘o cape e chesta terra
songo ‘o cape ra suggiti
quanno mammeta te facette
a’ panza sotto te mettette
currettene ‘e vicini
e te venettene a vutà
mo ca te faje cchiù grussiciello
‘o mariunciello te miette a fa!




























LA TAMMURRIATA





La Tammurriata è una della espressioni musicali e sociali della tradizione folcoristicadella Campania. Si è sempre realizzata, sin da tempi remoti, e continua a realizzarsi, ad opera del popolo contadino, nelle campagne della provincia.
La tammurriata è legata a momenti ritualizzati della collettività e con precisione alla sacralità devozionale rivolta alle tante Madonne campane e a Sant'Anna.
Essa prende vita spontaneamente attraverso l'interdipendenza del ballo, del canto, della musica, mediata e catalizzata sempre dal vino e dallo spazio sacro. I suoi esecutori sembrano sprigionare l'energia interiore per dar vita a un circolo che non ha legami con la realtà quotidiana. La
produzione delle tammurriate nei paesi campani si accende nel periodo che va dall'inizio della primavera, momento della fioritura, per spegnersi nella seconda metà di agosto, in concomitanza con la fine del raccolto e della potatura. Si ricomincerà con l'arrivo del Carnevale dell'anno successivo. Si attende che il buio invernale finisca nel rispetto del
ritmo di Madre Natura, affinché questa possa dare i suoi fiori, i suoi germogli.

Un tempo, per festeggiare le Madonne benefattrici, i pellegrini giungevano dalle campagne limitrofe al luogo del culto, a piedi oppure sullo "sciaraballo", un enorme carro trainato un tempo da cavalli o buoi, oggi dai moderni trattori.
Sciaraballo è un termine campano che deriva dal francese "char a bal", che significa carro da ballo, infatti su di esso cominciavano e cominciano, le esecuzioni delle tammurriate durante il tragitto che conduceva sul luogo della festa. Questo carro viene addobbato con l'aggiunta di salami, caciocavalli e altri prodotti locali. non può mancare il vino per
dissetare i cantatori, i danzatori e i sonatori. Lo sciaraballo diventa, così, produttore di forza vitale, di energia, sul quale donne e uomini, vecchi e giovani, possono abbandonare le tensioni per giungere al luogo sacro in piena libertà di sensi.
Nel mondo greco, la danza veniva considerata dono degli dèi agli uomini e mezzo per questi di accostarsi alla divinità, fino ad identificarsi con essa. Il dono del movimenti del corpo era quasi sempre una pantomima che rappresentava miti e celebrazioni di figure divine e mitologiche. I danzatori ellenici si muovevano con gesti corporei strettamente
collegati alla voce, alla musica per raggiungimento dell'ebbrezza terrena.
Con la nascita del teatro greco (V secolo a.C.) queste danze furono schematizzate ed entrarono a far parte delle rappresentazioni. Alcune di queste antiche danze presentavano gesti caratteristici che si ripropongono nell'odierno ballo su tammorra, in particolare la cheironomia, la posizione assunta dalle mani nel corso del ballo, molto
importante poiché attraverso di essa si esplicitano particolari sentimenti ed emozioni e il saltare di tipo demoniaco che agita tutto il corpo. Entrambi questi movimenti erano eseguiti da satiri, adoratori del culto di Dioniso e Cibale.
La danza dei satiri, probabilmente antenata della nostra tammurriata, si chiama sìkinnis e si ballava nel tempio divino. Le danze bacchiche sostituirono, in seguito, la sìkinnis. Queste nuove danze, sempre in onore del dio Dioniso, erano costituite dall'elevazione ritmica delle
braccia, da piccoli passi e dall'agitazione di tutto il corpo. Questi movimenti servivano alle braccianti, donne seguaci di Dionisio, e alle sacerdotesse del dio per giungere al furore eroico. La danza delle baccanti era detta turbè, danza oscena, eseguita, di solito, durante tutti i riti auspicanti fecondità. Il gesto più caratteristico di questa danza, cioè il braccio
teso con il palmo della mano piatto rivolto verso lo spettatore, è detto abominari. Questo termine fa riferimento a cattivi presagi che l'antica danzatrice, con le sue movenze, cercava di respingere con vigore. Nella danza dionisiaca confluì anche la gestualità della danza pirrica greca, danza giocosa, ma anche seria e guerresca, eseguita da un'amazzone armata di lancia e di un piccolo scudo e da un sileno che le protendeva la
tipica pelle di daino, propria del culto dionisiaco. Anche questa danza era caratterizzata da un movimento violento di tipo guerresco poiché simboleggiava la lotta dei satiri contro i giganti, nemici del dio Dioniso. I satiri parodiavano, attraverso la loro mimica, anche la
mancanza di coraggio e di audacia propria dei cultori della vita agreste. Un'altra danza greca, eseguita dai giovani durante la vendemmia e caratterizzata anche da un'azione mimica, è chiamata epilenios. Il suo movimento gioioso, cadenzato dal ritmo della cetra e
del suono delicato degli zufoli, si può rilevare in alcune movenze tammorare. Con questa ritualità mimetica vengono rappresentate tutte le azioni svolte dai vignaioli durante il periodo della vendemmia. Tra le danze allegre si ricorda la kordax. Essa appartiene al genere della commedia greca di tipo organistico ed è caratterizzata da movimenti eccitanti, in particolare dal movimento turpe dei fianchi, e da una grande
varietà musicale. Questi molteplici elementi delle danze greche presenti nella tammurriata, mettono in evidenza le sue antiche origini e il suo eterno legame con la terra, la divinità, l'ebbrezza bacchica.
Presso tutte le popolazioni, la danza accompagna alle più importanti manifestazioni della vita religiosa e sociale. essa presiede alle cerimonie di culto, alle vicende nazionali di pace e di guerra e a tutte quelle che scandiscono il ciclo vitale dell'individuo dalla nascita
alla morte. E' da sottolineare l'importanza per questa danza del luogo deputato. Per i popoli antichi era lo spazio antistante il tempio del dio venerato, come oggi è il sagrato della chiesa sella Madonna o dal Santo festeggiato.
La tammurriata è una danza legata a questi antichi valori analizzati sino ad ora e nella quale confluiscono molteplici significati. E' una danza a coppia, eseguita da un uomo e una donna, oppure da due uomini, o da due donne, senza limiti di età. Questa danza campana esprime rappresentazioni rituali che non riguardano il quotidiano, ma tutto ciò
che il quotidiano reprime e nega. Il ballo dei contadini è costituitoda una gestualità tutta ritualizzata, che nel momento collettivo assume un significato simbolico e magico. I suoi gesti possono essere spontanei, derivati da gesti che si effettuano durante il duro lavoro quotidiano nei campi o in casa, come setacciare la farina, zappare la terra, imitazioni di
atteggiamenti degli animali. Quando la musica inizia a scandire il tempo, tra i potenziali danzatori, attraverso un gioco di sguardi avviene la ricerca del partner, poi l'incontro dei due e infine la formazione della coppia di ballerini. Nella prima parte del ballo, sembra che
i due danzatori cerchino la giusta intesa tra loro e assaporino bene il ritmo della tammorra, sulla quale poggia anche il canto, e ballando cominciano a saggiare il loro rapporto con lo spazio. In questo momento di ricerca, i due esprimono la volontà psicologia di possedere uno spazio proprio in cui agire protetti dalla barriera che si è venuta a creare tra la coppia, sia da quella formata dagli astanti, i quali, a loro volta, sono
dei potenziali partecipanti alla danza stessa, visto che potrebbe intervenire in ogni momento. Infatti, durante l'esecuzione di una tammurriata non esistono attori e spettatori, non esistono barriere fra i partecipanti alla festa, né esistono palcoscenici, ma si formano spontaneamente dei cerchi con tutti i presenti, all'interno dei quali si fondano suonatori,
danzatori, cantatori e spettatori. Il cerchio simboleggia la volontà di sfuggire al tempo canonico, si tenta, attraverso di esso, di fermarlo. Il duro vivere quotidiano viene così dimenticato ed esorcizzato. Il cerchio formato dagli spettatori serve a potenziare le energie umane dei partecipanti alla tammurriata; nel suo interno la danza si svolge regolarmente sempre sulla ritmica dello schioccare delle castagnette, tenute in mano un
pò da tutti, e tra gli sguardi fissi e reciproci dei danzatori, i quali cominciano ad assumere un ruolo più aggressivo, di evidente avvicinamento amoroso o di sfida, assecondato o scacciato dall'altro. Quest'ultimo può indietreggiare, perchè incalzanto dal compagno o compagna, oppure decidere di accettare il corteggiamento o il duello. Questo gesto può assumere una valenza di debolezza, di paura, di invito e solo attraverso la mimica
facciale, in particolare lo sguardo fisso e i comportamenti dei due danzatori, questi atteggiamenti possono essere chiariti e compresi. La vutata è simbolodella sfida o dell'accoppiamento, ma può risultare, da parte della donna, un rifiuto dell'uomo che la sta corteggiando; la coppia, allora, si può spezzare ed in questo momento può entrare, per
formare una nuova coppia, un altro personaggio come potenziale corteggiatore. In questa successiva fase la ritmica e la parte cantata vengono modificate.
La tammorra batte in uno, il cantante canta su una sola nota molto prolungata, modo tecnicamente chiamato melismatico, oppure aggiungere versi più brevi per seguire i due danzatori che girano su
loro stessi, quasi incatenati. A questo punto della vutata, si assiste alla liberazione totale e allo sblocco di tutte le tensioni muscolari dei danzatori. nella girata, l'andamento della danza è antiorario, come se lo sforzo dell'uomo fosse quello di arrivare alla sospensione- approvazione sia dello spazio che del tempo. è in questo momento che si attende una
teofania, infatti è nella sospensione spazio-temporale che si manifesta il dio.
La danza, con i suoi atteggiamenti, le sue intese, le sfide, i rifiuti, gli accoppiamenti, ricamati dalla ritmicità delle castagnette, sprigiona tutta l'energia interiore dell'uomo, la sua forza e resistenza fisica, ed è una delle maggiori e più genuine manifestazioni di sensualità alla quale possiamo assistere e partecipare. Non esiste limite di tempo per
terminare la danza se non quello di sfinire, perdere i sensi, raggiungere l'acme che dischiude nuovi orizzonti prima sconosciuti. Il ballo non è soltanto frenesia, ma è soprattutto invasamento divino, è antusiasmo. Non esiste alcuna scuola dove imparare questo ballo, ma solo iniziazione; quando si è ragazzi si inizia a ballare con gli anziani e in
questo caso bisogna solo seguire i passi e imitare senza mai perdere l'iniziativa. Seguire lo sguardo di colui che guida è importante, soltanto guardandosi sempre negli occhi si può entrare in sintonia. Ancora oggi è possibile vedere come donne e uomini di una certa era siano disponibili ed entusiasti di accompagnare nell'apprendimento di questa danza i
più giovani, assecondandoli e portandoli per mano in questo mondo dell'espressione e della gestione libera del proprio corpo. La tammurriata ha delle caratteristiche ben precise, ma è necessario parlare anche di alcune distinzioni coreutiche che interessano certi paesi della Campania. Queste diversità sono nate, forse, a causa della varietà geografica e climatica dei posti dove la nostra danza si balla. In pianura e nei luoghi vicino
al mare, la danza è stata sempre considerata un avvicinamento sensuale e amoroso, mentre nei luoghi alti e montagnosi la presenza maggiore del pericolo e la necessità di conquistare le vallate, hanno introdotto nella tammurriata atteggiamenti più duri, scattanti, saltellanti aggressivi. La tammurriata scafatese è la più ballata, grazie alle movenze
sensuali. Il suo fine è il corteggiamento, reso evidente dall'ondeggiamento morbido e fluente dei due corpi in movimento. Essa appartiene a tutta la zona dell'Agro Noverino- Sarnese, in particolare a Pagani, a Scafati, a Marra di Scafati, tutti in provincia di Salerno. la paganese è una danza più saltellante, rispetto alla precedente. I ballerini presentano
minori momenti di attaccamento e la stessa vutata mantiene i suoi protagonisti distaccati. Le nacchere ritmano un doppio battito, che ritma la danza con un movimento alternato in basso e in alto. Questa Tammurriata, che si balla a Pagani e paesi limitrofi, non ha il corteggiamento come protagonista, ma una sorta di duello tra danzatori.
Un altro tipo di tammurriata è la giuglianese, che si caratterizza per la presenza, nel gruppo musicale, del doppio flauto, del tamburello e dello scacciapensieri ed un ritmo più veloce. Il ballo è saltellante, le braccia dei danzatori sono tenute stese e il senso di sfida si accentua sempre più. Nella vutata, uno dei danzatori stende la gamba tra quelle del
partner, il quale la raccoglie tra le sue, formando un quattro, numero che simboleggia l'erotico femmineo. La giuglianese appartiene al folclore (NA) e a quello di Villa di Briano (CE). Ultimo modo di ballare la tammurriata è quella dell'Avvocata, in onore della Madonna dell'Avvocata. La caratteristica più importante è la presenza di un numero elevato di
tammorre, suonate contemporaneamente, che può arrivare anche sino a dieci. C'è una tammorra principale che guida il tempo e insieme alla voce, dà il numero dei colpi della vutata secondo il testo delle strofe intonate. La musica e i movimenti sono veri e propri richiami guerreschi, incitamento agli uomini nei momenti di combattimento.











































LA LEGGENDA DELLA MADONNA DELL’AVVOCATA



Il pellegrinaggio al Santuario di Maria Santissima Avvocata sul monte Falerzio sulla penisola di Capo d’Orso, si svolge ogni anno, il lunedì successivo al giorno della Pentecoste. Vi partecipano pellegrini provenienti in gran parte dal Salernitano. In questa festa c’è un gran numero di tammorre, le quali vengono suonate contemporaneamente.
c’è , però, una tammorra principale che guida il tempo e insieme alla voce, dà il numero dei colpi della vutata secondo il testo delle strofe intonate.
La leggenda narra che un giovane pastore di nome Gabriele Cinnamo, nell’anno 1485, mentre pascolava il suo gregge su per le montagne di Maiori, fu attratto da una forza irresistibile in una grotta del monte dove era stato guidato da una colomba, gli apparve la Madonna che gli comandò di edificarle un altare: in cambio Ella gli sarebbe stata Avvocata. Lasciate le capre, la vita del pastorello fu tutta un fervore di idee seguite dalla realizzazione di opere a testimonianza della miracolosa apparizione. Fu nella grotta che edificò, con i fondi raccolti tra la povera gente, il primo altare alla Madonna; e poi, avviatosi alla vita di eremita, realizzò la cappella, la chiesetta a tre navate e il romitorio. Nella grotta possono essere ammirati gli affreschi della Vergine, della Madonna dell’Annunziata, dell’Arcangelo Gabriele e della cena degli Apostoli circondata da angioletti. Il Santuario fu sede di un gruppo di frati eremiti fino al 1682, anno in cui passò sotto l’ordine e le regole dei Camaldolesi. Fu dimesso nel 1807 durante il decennio francese quando le leggi napoleoniche sancirono la soppressione degli ordini monastici; successivamente fu saccheggiato e ridotto a presidio militare.
La ricostruzione dell’intero complesso monastico risale alla fine dell’Ottocento, mentre l’acquisto da parte della Badia di Cava è del 1913.
Per chi si reca all’Avvocata in un giorno qualsiasi dell’anno, prevale il fascino della leggenda: si immerge in un luogo incantato ove la vetta del monte Falerzio troneggia sopra le altre cime della costiera a fronte di un mare a perdita d’occhio; e se il tempo è nuvoloso l’impressione è quella di trovarsi sopra le nuvole, in una dimensione in cui anche il tempo sembra sospeso.


































TAMMURRIATA DELL’AVVOCATA


TESTO


a festa d’Avvocata nuje n’ ciamma ire
muntagna pe’ muntagna nuie n’ciamma ire


e n’ce so’ arrivato pe’ glorie de lu cielo
e l’amma ‘i a’ truvà bella Madonna


E ‘n ce so venuto muntagna pe’ muntagna
a bella Madonna ne pe’ gli a’ truvà bella Madonna
E pe’ glorie de lu cielo
pe’ glorie de lu cielo n’ce so’ arrivato


n’addore ne ha stu Casale
e n’ce’ nata l’evera e’ bbi me ne vogl’i me ne vogl’i
una se chiamma o’ simbolo della bellezza


n’ce steve na nenna ca venneva e’ frutte
n’cio teneva o’ piett janco comm’o’ latte



io n’ce lo dissi cummuogliate ‘o piett
Ella m’o disse cummarè po’ San Giuvanno
Ella me disse tieneme mente e schiatta


e che me facisso ne si m’avisse a lietto
che te facisse
e ma scuntarria a n’giuria ca m’hai fatto

e buonasera ne signuri
canta lu gallo e
cutuleja la zampa
ve lasciammo a’ buonasera a tutti quanti






































TAMMURRIATA E’ ZI NANNINA





TESTO



lu mare e’ bbi ellere
a pantofola do’ pere oi Madalena
che alaie Madalena can un crisce



ah, nun fa’ l’anno
te fatte cchiù vascia
te fatta na’ vunnella acchiappapiscie



Mo se ne vene o’ juorno
ca te lasco


te lasco e me ne vaco
m’paraviso


ah si nun ce trovo a vuie
nun ce trovo a vuje ‘e nelle
o’ tricchitracche sotto a’ vunnella



ah si nun ce trovo a vuje
manco io n’ce trase



‘o paravise è fatto pe’ li Santi
l’inferno è fatto e’bbi o’ core tuojo è comm’o mio
l’inferno è fatto pe’ chi fa’ l’ammore!

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